venerdì 25 marzo 2011

Beccaria e il paradosso della volontà di uccidere

Parmi un assurdo che le leggi, che sono l'espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l'omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall'assassinio, ordinino un pubblico assassinio - Cesare Beccaria

Citazioni  e massime dall'opera di questo enorme pensatore del 1700  hanno stimolato un dibattito giuridico, politico e sociologico che è ancora vivo e attuale al giorno d'oggi. Come molti altri, sono affascinato dall'idea che un autore, la cui filosofia giuridica "dei delitti e delle pene" venne posta nero su bianco più di 200 anni fa, possa avere immaginato e proposto conclusioni tanto moderne. In particolare, personalmente, attribuisco  alla citazione su riportata un valore decisivo per far propendere verso una soluzione che rinneghi la pena di morte.

Discussioni innumerevoli si sono protratte nella storia riguardo alla utilità o meno della pena capitale quale deterrente verso la commissione di gravi reati. Anche noi di Leggendoci abbiamo minimamente contribuito con alcuni articoli a riguardo tra cui uno, in particolare, che metteva in evidenza la recente tendenza in USA (uno Stato da sempre intaccato da grandi contrasti ideologici interni sul tema) verso un progressivo abbandono, di fatto o di diritto, delle esecuzioni.
Senza quindi indugiare ancora sulla efficacia di una pena istantanea e definitiva, mi vorrei concentrare sull'aforisma iniziale per dimostrare come esso evidenzi una manifesta contraddizione giuridica in quei Paesi in cui, nonostante si elogi la democrazia, i codici penali continuino a prevedere la pena di morte.
Quando Beccaria scrive che le "leggi sono espressione della pubblica volontà" egli, fondamentalmente, definisce cosa sia la democrazia, termine che significa "governo del popolo". Il meccanismo storico classico attraverso il quale si è espresso tale intento negli Stati moderni è quello della rappresentanza indiretta dei cittadini all'interno di quegli organi aventi il compito di legiferare norme vincolanti per gli stessi elettori. In altre parole: non potendo il popolo tutto radunarsi e decidere le proprie regole (pena una impossibilità oggettiva di operare in modo organizzato e concorde), si è pensato di far scegliere ai cittadini un numero limitato di soggetti che creino regole valide per tutti. Ovviamente questo gruppo di rappresentanti sarà sottoposto a controllo in base ai risultati del suo operare. Ma come si fa a scegliere e controllare i "legislatori"? Lo si fa attraverso il diritto di voto che è quindi lo strumento in mano a tutti i cittadini di uno Stato democratico per esercitare quel "governo" che loro spetta.
Nel periodo in cui Beccaria scrive si stava diffondendo un visione illuministica dei poteri statali, della quale egli stesso fu promotore. Per quanto riguarda il potere legislativo in particolare v'era una cieca fiducia nella genuinità delle scelte compiute in sede parlamentare e si confidava pienamente che le leggi scaturenti da tale organo legislativo unico rispecchiassero appieno proprio la volontà collettiva del popolo, cioè la "pubblica volontà". Ecco quindi che siamo tornati all'affermazione dalla quale siamo partiti.
Più o meno nel medesimo periodo nacque l'idea che fosse lo Stato a doversi ergere a paladino della correttezza delle relazioni tra i consociati, grandemente turbate soprattutto in occasione di un omicidio. Anche per questo il diritto alla sicurezza sociale e alla vita furono affermati come fondamentali e fu ritenuto che l'interesse a non vedersi aggrediti a morte fosse condiviso da tutti i cittadini e, quindi, generale e da tutelare. Per questi motivi il fatto di omicidio fu ed è tuttora previsto da tutte le legislazioni come uno dei reati più deprecabili per la convivenza umana. Capiamo ora Beccaria quando afferma che "le leggi detestano e puniscono l'omicidio (poiché traducono in ciò l'interesse generale, la volontà generale del popolo a vederlo condannato)".
Compresi questi due preliminari passaggi il paradosso evidenziato dal giurista ("parmi assurdo") risulta limpido, almeno se rimaniamo nell'ambito di un modello democratico: se la legge punisce l'omicidio, perché glielo impone la volontà generale del popolo (sorretta dalla somma delle singole volontà individuali), come può allo stesso tempo ordinare che taluni cittadini commettano uccisioni? In altre parole: come può il popolo volere, nel medesimo istante, la condanna e la affermazione della morte nello stesso ordinamento giuridico?
Aggiunge e conclude Beccaria, a corollario del suo pensiero, "mi pare assurdo che per allontanare i cittadini dall'intento di commettere assassinii (privati) venga imposto di commetterne uno pubblico (a cui tutti partecipino)".

Che vi sia una discrasia fra democrazia e pena di morte è evidente, così come evidente è il paradosso giuridico che la porta alla luce. Intuiamo in realtà come il paradossale, l'assurdo faccia a volte parte della sociologia e della politica più di quanto meriterebbe. L'irrazionalità è correlata alla natura umana. Ed essa conquista spesso le relazioni sociali e, purtroppo, anche le regole (il diritto) che queste dovrebbero razionalmente sovraintendere. Basti pensare, ad esempio, che, sebbene il diritto alla vita sia determinante, esso non è mai affermato in via assoluta: esiste sempre in ogni ordinamento giuridico quella situazione, chiamata stato di guerra, nel quale avviene una inversione e si incita ad uccidere il nemico. Molto spesso ci imbattiamo in contraddizioni che dovrebbero essere eliminate, almeno dal diritto dato che l'uomo da solo non vi riesce. Tra queste ritengo si collochi la pena di morte.
In conclusione, propongo una riflessione di Lev Tolstoj, che riassume bene tutto quanto ci siamo detti e ci ricorda come, prima di ogni altra cosa, l'uomo sia vita.
"Trent'anni fa ho visto a Parigi decapitare un uomo con la ghigliottina, in presenza di migliaia di spettatori. Sapevo che si trattava di un pericoloso malfattore; conoscevo tutti i ragionamenti che gli uomini hanno messo per iscritto nel corso di tanti secoli per giustificare azioni di questo genere; sapevo che tutto veniva compiuto consapevolmente, razionalmente; ma nel momento in cui la testa e il corpo si separarono e caddero diedi un grido e compresi, non con la mente, non con il cuore, ma con tutto il mio essere, che quelle razionalizzazioni che avevo sentito a proposito della pena di morte erano solo funesti spropositi e che, per quanto grande possa essere il numero delle persone riunite per commettere un assassinio e qualsiasi nome esse si diano, l'assassinio è il peccato più grave del mondo, e che davanti ai miei occhi veniva compiuto proprio questo peccato".
Per un interessante articolo in cui si analizza da un punto di vista "laterale" il diritto di voto, quale strumento fondante della democrazia: "Il diritto di voto come una promessa"

Come ricordato ci siamo già occupati di pena di morte nei nostri articoli, riporto i rispettivi link: "10 Ottobre: "I numeri della pena di morte"; "Giornata mondiale contro la pena capitale"; "Ultimissimo report sulla pena di morte in USA"

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