Una parte ben specifica del codice di procedura penale, nello specifico il Titolo IV del Libro II, è dedicata alla disciplina della traduzione degli atti processuali.
L' articolo 143 cpp, rubricato "nomina dell'interprete", al comma 1 recita:
"L'imputato che non conosce la lingua italiana ha diritto di farsi assistere gratuitamente da un interprete al fine di potere comprendere l'accusa contro di lui formulata e di seguire il compimento degli atti cui partecipa. La conoscenza della lingua italiana è presunta fino a prova contraria per chi sia cittadino italiano".
Tale disposizione ha recepito norme e principi di diritto internazionale presenti nella Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) all'articolo 6 e nel Patto Internazionale dei diritti civili e politici (P.i.d.c.p.) all'articolo14, ma inseriti anche nella nostra Costituzione. Infatti l'articolo 111, comma 3 insegna che:
"Nel processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato... sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo".
Presupposto per l'applicazione dell'articolo 143 è la non conoscenza della lingua italiana, in altri termini qualora l'imputato sia incapace di esprimersi utilizzando la lingua italiana ovvero non sia in grado di comprendere sufficientemente questo linguaggio.
L'assistenza di un interprete è garantita anche dal comma 2:
"... (si) nomina un interprete quando occorre tradurre uno scritto in lingua straniera o in un dialetto non facilmente intelligibile ovvero quando la persona che vuole o deve fare una dichiarazione non conosce la lingua italiana".
La nomina di un interprete quindi tutela due diverse esigenze, sia il diritto di difesa (al primo comma) dell'imputato sia il fisiologico svolgimento dell'attività giudiziaria (al secondo).
Per capire l'importanza di queste norme, che senza una contestualizzazione sembrerebbero lettera morta e prive di conseguenze giuridicamente rilevanti, vi riportiamo un recente caso di applicazione di quanto fin ora detto. A Palermo una ordinanza di custodia cautelare (un atto processual-penalistico, nello specifico una misura cautelare coercitiva della libertà personale) emessa dal giudice al fine di portare in carcere un presunto corriere della droga nigeriano non essendo stata tradotta dall'italiano in inglese è stata annullata. L'ordinanza è stata infatti impugnata davanti al Tribunale del Riesame che appunto l'ha annullata, vanificando l'arresto e rimettendo in libertà il nigeriano. L'imputato non parlando italiano, aveva diritto secondo i giudici a leggere l'ordine di custodia cautelare anche in inglese. Sono citate per l'appunto nel provvedimento del Tribunale del Riesame sia la Convenzione per la Salvaguardia dei diritti dell'uomo sia il Patto internazionale sui diritti civili e politici dell'uomo, di cui abbiamo precedentemente parlato. Siccome l'art. 143 suddetto parla espressamente di "diritto di farsi assistere gratuitamente da un interprete al fine di potere comprendere l'accusa contro di lui formulata", i giudici motivano il loro provvedimento affermando: "Non vi è alcun dubbio che il provvedimento applicativo di una misura cautelare costituisca un atto funzionale alla comprensione dell'esatto significato della natura e dei motivi dell'accusa mossa nei confronti di un indagato. Ecco perché deve essergli notificato nella lingua da lui compresa". Da qui la decisione di annullare l'ordinanza emessa dal giudice disponendo che l'uomo venisse scarcerato.
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