"Se guardiamo un pezzo di legno perfettamente diritto, immerso nell'acqua, ci sembra curvo e spezzato. Non ha importanza cosa guardi, ma come guardi: la nostra mente si ottenebra nello scrutare la verità" - Lucio Anneo Seneca
In questo pensiero il grande filosofo della Roma antica volle evidenziare, in modo particolarmente efficace, un concetto fondamentale che dovrebbe sempre essere posto in posizione primaria tra i filtri che tutti noi usiamo quando ci approcciamo alla realtà: la nostra conoscenza è relativa e dipende innanzitutto dal punto di vista dal quale la acquisiamo.
Ciò che spesso sfugge, nel momento in cui eleviamo la nostra visione del mondo (anche su piccole cose) a verità assoluta ed incontrovertibile, è proprio che noi siamo figli della nostra esperienza, in primis della nostra educazione e che raramente esiste una interpretazione univoca per un fatto potendo così ciascuno lasciare libertà alla propria, la quale sarà condizionata dal suo punto di vista.
Ovviamente tutto questo serve a sottolineare come, tra la quasi totalità di discipline, anche il diritto in generale e i soggetti che operano con esso in particolare non sfuggano a quella che possiamo chiamare "la relatività della conoscenza".
Anzi, sebbene il mondo giuridico raccolga regole che, nelle intenzioni di chi le fa e nella percezione di chi ne è destinatario, dovrebbero avere un significato univoco (quello che la legge prevede e dice), nel corso dei miei studi posso affermare senza paura che il diritto raccoglie norme dal significato "relativo": si risolvono infatti nella interpretazione che di esse se ne dà.
Gli articoli dei codici nulla affermano di per sè finché qualcuno non compie per loro questa operazione facendole "parlare", consentendo loro di esprimere qualcosa.
E' questo storicamente il compito dei giudici che, esercitando la giurisdizione, hanno il compito di individuare all'interno dell'ordinamento le regole applicabili ai casi concreti (controversie) che giungono davanti a loro e in seguito di formulare la regola giuridica per qual singolo caso interpretando la legge in osservanza delle regole a tal fine stabilite, prime fra tutti i principi fondamentali della Costituzione.
Sarebbe utopistico pensare che i giudici applichino senza interpretare e altrettanto utopistico sarebbe pretendere che, nel compiere le operazioni ermeneutiche, essi non mettano in campo, magari involontariamente, il loro personale punto di vista, diverso per ciascuno.
Certo ad attenuare la loro discrezionalità ci pensa innanzitutto la legge in vari modi (ad esempio con regole che danno un ordine preferenziale ai criteri interpretativi da usare, o regole procedurali che pongono limiti all'esercizio del potere giurisdizionale richiedendo in primo luogo che esso si esplichi solo attraverso un "giusto processo"). Coadiuvano poi, a diminuire la possibile ampia discrezionalità dei giudici, l'abitudine all'autocontrollo acquisita da essi con lo studio prima e con l'esercizio della professione poi. Tuttavia non è completamente eliminabile la soggettività di ciascuno nell'approccio ai casi.
Se al contrario affermassimo possibile il raggiungimento di una decisione oggettivamente giusta, vorrebbe dire credere nell'esistenza di una verità certa, di una conoscenza obiettiva la quale non è assicurata nemmeno in campo scientifico e che quindi non può pretendersi nemmeno in campo giuridico.
I giudici "bouche de la loi" ("bocca della legge"), come li aveva teorizzati Montesqueiu nel 1700, non esistono. L'idea che si è affermata nel corso dell'Ottocento del giudice mero esecutore della volontà della legge è una utopia: è lui che assegna alla norma un significato pratico, perchè è lui, primo fra tutti, che la interpreta e la applica.
Avendo chiara questa idea sarebbero forse ritrattate molte delle critiche che compaiono sui giornali le quali vorrebbero dei giudici-automi: i giudici non sono macchine ma lavoratori e la legge è il loro utensile da usare nel modo corretto.
La nostra Costituzione recita che "I giudici sono soggetti soltanto alla legge" (101 Cost), non fa menzione del fatto che debbano essere anche "oggetti" di essa.
Conseguenza diretta di quanto affermato in questo post è che i giudici nelle aule di Tribunali "creano" diritto e non potrebbe essere altrimenti: per maggiori e completi chiarimenti sul tema potete leggere La "giurisprudenza" come fonte del diritto
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