lunedì 7 maggio 2012

Il licenziamento per giusta causa è legittimo quando il dipendente è stato trovato in possesso di hashish

Con la sentenza n.6498/2012 del 26 aprile scorso la Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso di Unicredit Banca, ha dichiarato legittimo il licenziamento intimato dall'azienda ad un proprio funzionario per essere stato fermato e trovato in possesso di hashish dopo un controllo notturno delle forze dell’ordine. 
Il lavoratore aveva impugnato il licenziamento della banca, ma si è visto parte soccombente in primo grado davanti al Tribunale di Nuoro. In Appello a Sassari ha invece vinto la causa ottenendo anche la reintegrazione sul posto di lavoro allo sportello bancario. La Corte di secondo grado ha ritenuto eccessiva la sanzione del recesso del datore dal contratto di lavoro perché, seppure “la detenzione di sostanze stupefacenti non va condivisa”, una cosa è l’"uso personale" ed altra è lo "spaccio".
Soltanto quest’ultimo infatti comporterebbe la frequentazione di un ambiente pericoloso che “certo può costituire giusta causa del venire meno del rapporto fiduciario”, tanto più considerato il tipo di impiego presso un istituto di credito a contatto col pubblico e con il costante maneggio di denaro. A parere della Corte territoriale l’uso personale della droga integra “una condotta molto meno grave” di cui non si può non tener conto in sede di decisione. Essa ha distinto tra droghe leggere, come l’hashish, decisamente meno pericolose e meno costose delle droghe pesanti. Solo le seconde comporterebbero assuefazione e modificherebbero la personalità. Il consumo delle prime non costituirebbe, sempre secondo la Corte di Appello, un rischio per la banca o un danno d’immagine, data la bassa riprovazione sociale riguardo il consumo delle droghe leggere.
La banca ha deciso allora di fare ricorso in Cassazione per l'annullamento della sentenza di secondo grado. Ed in ultima analisi la Sezione Lavoro della Corte Suprema, in contrapposizione con la precedente decisione in appello, ha dichiarato che il disvalore della condotta è stato tale da minare il rapporto fiduciario tra l’azienda e il dipendente. Il licenziamento per giusta causa è stato quindi legittimo. Secondo la Cassazione le generali giustificazioni e valutazioni sulla maggiore o minore gravità delle condotte -di consumo personale o spaccio- utilizzate dalla Corte di secondo grado, non sono fondate su prove, né costituiscono fatti notori o massime di esperienza, cui il giudice possa appoggiarsi nel dare la propria decisione. 
Insomma, per i giudici di Appello l’intero episodio “attiene alla sfera rigorosamente privata” e non è più grave di quello “del dipendente che viene trovato nella ubriaco” dopo aver acquistato e consumato “una massiccia dose di alcolici”. Opposta la presa di posizione della Cassazione che riconduce un fenomeno sociale molto diffuso come quello del fumo delle “canne” nel novero dei comportamenti gravi che, anche se tenuti fuori dall’azienda, autorizzano il recesso per giusta causa ex articolo 2119 comma 1 del codice civile.
L’articolo 2119 comma 1, del codice civile, rubricato “recesso per giusta causa”, afferma che  
“ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione anche provvisoria, del rapporto. Se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore di lavoro che recede, per giusta causa compete l'indennità indicata nel secondo comma dell'articolo precedente”.
In linea generale, fatte salve le limitatissime ipotesi nelle quali è permesso il cosiddetto recesso ad nutum, ovvero il licenziamento senza preavviso ex art. 2118 (ad esempio, il licenziamento dei dirigenti e quello dei lavoratori domestici), il limite imposto al datore di lavoro intenzionato a licenziare un lavoratore è quello della giusta causa ex art 2119 o del giustificato motivo ex legge 604/1966. Anche se appare superfluo ricordarlo, un ulteriore divieto è rappresentato dal licenziamento per motivi discriminatori (es. per razza): una motivazione di questo genere, infatti, rende assolutamente nullo ogni eventuale licenziamento. La giusta causa è definita dall'art. 2119 cod. civ. sopra riportato, quale fatto particolarmente grave che non consente la prosecuzione del rapporto di lavoro nemmeno temporaneamente; questi fatti sono, generalmente, individuati dai CCNL (Contratti collettivi nazionali di lavoro).  Giova sottolineare che, comunque, il giudice potrebbe ritenere "giusta causa" anche comportamenti o fatti non individuati dai CCNL. Il giustificato motivo, differenziato in soggettivo ed oggettivo, é definito dall'art. 3 della legge n. 604/1966: quello soggettivo come "notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro", quello oggettivo come conseguente a fatti relativi "all'attività produttiva, all'organizzazione e al regolare funzionamento di essa".  
Dalla natura illegittima del licenziamento - riconosciuta da un giudice del lavoro - discende la conservazione del posto di lavoro e/o del risarcimento del danno a secondo delle dimensioni dell’impresa e della natura dell’invalidità. Dalla dimensione aziendale dipende l’applicazione della c.d. tutela reale (con obbligo di reintrego del dipendente) nelle imprese con più di 15 dipendenti, o della c.d. tutela obbligatoria (il datore più scegliere se reintegrare o pagare una indennità) nelle imprese fino a 15 dipendenti. La tutela reale è prevista dall’art.18 della legge 300 del 1970. 


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